MAMA CORAGGIO

Testimonianza di Cristina, una dei cinque ragazzi bolognesi, durante la sua permanenza in Congo-Brazzaville ha operato con i “ragazzi di strada” accolti in una casa-famiglia alla periferia della capitale e con i bimbi più piccoli accuditi durante il giorno presso la parrocchia francescana di Makoua.

MAMA CORAGGIO

Sono di nuovo qui tra i “mu ndele”(bianchi) e come loro corro, mi affretto nei miei affari di tutti i giorni con la vana speranza di avere un po’ di tempo, almeno questa sera, di vedere un film. Ma i film e tutti gli impegni, sia lavorativi che di studio, non riescono a distogliere la mia mente dal suo pensiero fisso: l’Africa. Mentre sfreccio in bicicletta da una parte all’altra di Bologna inseguendo la mia vita, cerco bramosamente nella gente a piedi o dietro i finestrini delle macchine o sotto un casco di un motociclista o sotto la berretta di un ciclista quei volti sorridenti, che i miei occhi hanno avuto la fortuna di osservare questa estate. Purtroppo la ricerca dà risultato nullo, mi devo accontentare delle mille foto che ho scattato e delle infinite immagini che conservo gelosamente nella mia mente. Ricordo ancora il mio primo pensiero dopo esser scesa dall’aereo: “Ma chi me l’ha fatto fare? Perché andare in mezzo a questa gente che urla, che litiga per portarmi le valigie, che cerca di convincermi a prendere il suo taxi, che vuole lucidare le mie scarpe da tennis di tela o vendermi qualsiasi cosa?”. Poi i frati ci caricano sulle jeep e ci portano in un luogo tranquillo e silenzioso quale è Djiri. Arriviamo che è sera, e la sera africana è buia… tanto buia, per cui continuo a non capire dove mi trovo. Il sole sorge, ci si sveglia poco dopo (se riesci ad ignorare il canto del gallo) e vedo le colline attorno al convento, le donne e i bambini che lentamente giungono a piedi al “pozzo” per riempire d’acqua le taniche da 25 litri e ancora più lentamente ritornano a casa. Cerco le loro case e tra il verde delle colline, andando con lo sguardo verso la strada principale, vedo tante piccole casette di latta argentata; in pochi possono permettersi quella di mattoni. È là che vivono, è quello il loro rifugio nella stagione delle piogge. Il giorno dopo il nostro arrivo, i frati ci portano da Mama Honorine, a Massengo, periferia di Brazzaville. Lungo il tragitto, passiamo a fianco del cimitero, rappresentato da una sconfinata distesa di nostre piastrelle del bagno che loro utilizzano per fare le lapidi, e incominciamo a intravedere e udire il caos e il continuo schiamazzare della vita di città. Cerco, tra la gente che cammina a piedi al lato della strada, volti bianchi, ma realizzo quasi subito che non ne troverò. Ora sono io in minoranza, sono io la persona che ha un colore di pelle strano, quella che se passa per strada guarderanno tutti indicandomi. Non è una sensazione piacevole avere sempre tutti gli occhi addosso, ma poi ripenso che loro, quando sono venuti in Occidente, non si sono trovati solo gli occhi addosso… e allora sto zitta e subisco in silenzio quegli sguardi scrutatori. Non smetto di essere scrutata neanche quando arrivo a casa di Mama Honorine, una casa di mattoni con un alto muro di cinta che la isola dall’esterno. I ragazzi ci guardano con una curiosità inversamente proporzionale all’età: più sono piccoli più sono curiosi, ma allo stesso tempo intimoriti da questa diversità. Ma quando vedono che i grandi ci accolgono come se nulla fosse, anche loro ci si avvicinano. L’accoglienza mi spiazza. Mentre io piango la loro miseria, loro vivono di quello che c’è, dell’essenziale. Vorrebbero di più… sono ragazzi, ma non c’è e se non riescono a costruirselo, fanno senza. Con questi ragazzi e con Mama Honorine ho condiviso la quotidianità della loro vita familiare: insieme si preparava da mangiare, si cucinava, coi piccoli si giocava e si disegnava finalmente con dei pennarelli e di tanti colori, coi grandi si giocava a frisbee o a biliardino e si parlava, mentre le ragazze accarezzavano finalmente dei capelli lisci come la seta. All’inizio è stato difficile per me adeguarmi ai loro ritmi, troppo lenti per una frenetica come me, ma piano piano mi sono adeguata e alla fine ne ho capito l’essenza. Vivendo con loro mi sono accorta che fra le mille qualità che caratterizzano ciascun ragazzo, ce n’è una che li accomuna tutti: la fantasia. Quella che fin da piccoli anima i bambini a costruirsi le macchinine con i bastoncini di legno o con la latta delle scatole vuote di pelati; quella che trasforma la scatoletta di sardine vuota nel divano della casa delle bambole, vestite con splendidi abiti da collezione ottenuti dagli avanzi delle stoffe della mamma sarta; quella che fa diventare i tappi di plastica delle bottiglie i giocatori e la pila scarica il portiere di una squadra di subbuteo; quella che modifica una vecchia asse di legno in una scacchiera per giocare a dama con i tappi della coca-cola come pedine di una squadra e quelli della birra per l’altra. Quella stessa fantasia che dona agli adulti energie e capacità di inventarsi sopravvivenza. Già perché per noi Mama Honorine, a causa della poliomielite, sarebbe una donna bisognosa d’aiuto, ma in Africa diventa una persona in grado di dare aiuto ai 15 ragazzi di strada che di volta in volta le sono stati affidati dai frati e che lei ha trasformato in una famiglia. Non è stato facile per lei trovarsi a dover gestire questi ragazzi già adolescenti che hanno vissuto per un determinato periodo per strada, secondo le regole della strada. Lei ce l’ha fatta, grazie alla sua forza, grazie all’aiuto e al sostegno che le hanno sempre dimostrato i frati. L’Africa è ricca di tante Mama Honorine, bisogna solo dar loro la possibilità di mostrare a noi come è possibile cambiare il destino di quei ragazzi di strada che in strada non ci vogliono vivere.